Giugno 2013: viene pubblicato 13, nuovo album dei Black Sabbath.
Il disco non è male, ma non riesco a capire quale sia il senso di tutto ciò. Le mie due anime, quella del fan e quella dell’ascoltatore, sono in contrasto tra di loro, e non ne vengo a capo. Come detto, 13 non male, anzi, è un discreto album. Forse l’unico modo per farmi piacere completamente il lavoro è pensare che sia la quadratura del cerchio, la fine che si ricongiunge con il principio proprio per dire “abbiamo fatto quello che dovevamo fare, addio!“. I Black Sabbath li sono visti dal vivo nel lontano 1998, attaccato alla transenna davanti al dio della sei corde Tony Iommi. All’epoca fu un’altra situazione, niente album in promozione, solo un gran bel tour con i nostri eroi quindici anni meno vecchi e un’energia davvero notevole on stage. Conservo ancora la vhs del concerto, un bootleg pagato caro – 40.000 lire – ma ben fatto e che negli anni dispari mi riguardo con grande piacere. Alla fine di quella reunion ne venne fuori un doppio live album ascoltabile e nulla più, Reunion, con un paio di pezzi registrati per l’occasione, Psycho Man e Selling My Soul, carini. Ora le cose son diverse, nuovo studio album, nuova voglia di suonare, di far conoscere il verbo della vera musica ai tanti adolescenti che negli ultimi tempi hanno scaricato la discografia del gruppo inglese in un paio di click, degnando forse un distratto ascolto a qualche album indaffarati al computer. Giovani, i dischi vanno comprati.
La musica di 13? Fottuto hard’n’roll alla Black Sabbath dove doom, heavy metal e r’n’r vanno a braccetto come nei magici anni ’70. Ci sono i classici ottimi riff di Iommi e il basso di Butler che pulsa come ogni bassista dovrebbe far fare al proprio strumento. Poi c’è il solito Ozzy, quello “recente” sempre meno gradevole da ascoltare, ormai ripetitivo all’inverosimile, ma Ozzy nel 2013 è questo, prendere o lasciare. Infine c’è Brad Wilk alla batteria al posto dello storico Bill Ward. La telenovela che ha portato all’esclusione del drummer la conosciamo tutti, e una cosa simile era accaduta anche per il tour del 1998, ma a sostituirlo (dopo una manciata di date) c’era Vinny Appice, scusate se è poco: un vecchio dinosauro del rock sostituito da un altro grande dinosauro del rock, che spettacolo. Qui c’è, almeno per il disco, Wilk dei Rage Against The Machine e fa un ottimo lavoro. Nei mesi precedenti la registrazione avrà sicuramente studiato per bene i pattern di Bill Ward perché quello che si sente su disco sembra un piccolo clone di Ward, senza chiaramente lo stesso tocco e senza dimenticare di metterci un pizzico di personalità. In realtà penso che se uno è un batterista serio i ritmi di Ward se li deve studiare per forza quando si è giovane e si impugnano le bacchette, così come i bassisti seri studiano Geezer Butler, anche se poi a sentire in giro in pochi sanno rendersi utile per il suono della propria band.
13 è il mio ascolto fisso negli ultimi giorni: i primi pieni di pregiudizi, più per paura di una fallimento che altro. Nei seguenti si è fatta spazio in me la rassicurante idea che Iommi/Butler non si sarebbero sporcati per un lavoro mediocre, a differenza delle ultime opere di Ozzy, noiose. I riff ci sono (d’altronde, essendo gli stessi di 40 anni fa come non possono essere buoni?), il songwriting è sicuramente premeditato, altrimenti non si spiegherebbero i continui autoriferimenti al passato, le continue citazioni nella struttura dei brani, dei cambi di tempo che ti fanno dire “beh, questa è Black Sabbath“, “come in N.I.B.!” ecc., i suoni sono sulfurei al punto giusto, tutto gira come dove girare in un fottuto disco della band di Birmingham, oscuro e all’apparenza minaccioso, le canzoni hanno la potenza di un vecchio panzer ancora manovrato con due semplici leve dal pilota e senza computer di bordo, un vecchio panzer che una volta rimesso in sesto schiaccia come niente fosse il moderno automezzo bellico, ricco di possibilità dovute a tecnologia, satelliti e altre diavolerie, ma privo della bastardaggine dell’arcaico, e per tanti, vetusto, mezzo blindato. I tre inglesi tirano fuori il meglio, ovvero il passato, e lo rendono attuale con esperienza e furbizia. 13 è un cd pieno di vita, di sangue e di classe, un full-length scolastico se ce n’è uno, ma quando i Black Sabbath realizzano un album scolastico vuol dire che è un grande album. Completamente vecchio stile, con canzoni che clonano quelle di trenta e più anni fa, e forse è bello da ascoltare proprio per questo: nessuna sorpresa, solo 100% Black Sabbath sound primi anni ’70, con passaggi intensi e interessanti, la chicca del finale di Dear Father (facile da capire, no?). Onestamente, dopo qualche decina di ascolti la domanda è una sola, e più che giustificata: perché ascoltare 13 quando ci sono Paranoid e Master Of Reality, perché Zeitgeist quando c’è Planet Caravan dal 1970? Perché spendere soldi se possiedo già la discografia completa, compresi gli anni di Tony Martin, se non per collezionismo? Forse unicamente perché i Black Sabbath sono una fede, e anche quando meno ispirati (Technical Ecstacy per dirne uno…) o grandemente paraculi come in 13, vanno amati lo stesso, senza se e senza ma.
Di fatto 13 può essere apprezzato da tutti: ragazzini che con un minimo di volontà tornano alle radici staccandosi dalle boiate moderne (Sabaton???) delle quali si professano adoratori, vecchi nostalgici che non ne possono più di metalcore e imbarazzanti coretti clean nei ritornelli dopo la devastazione della strofa, i quali non aspettano altro che il nuovo vinile dei Cirith Ungol e Satan; 13 è buono soprattutto per i criticoni come me, che sputano spesso veleno, ma che accolgono con piacere una vecchia, forse non necessaria, ma comunque sfiziosa, rimpatriata.
Sperando che sia l’ultima.

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