Ulvhedin – Pagan Manifest
2004 – full-length – Einheit Produktionen
VOTO: 7,5 – recensore: Mr. Folk
Formazione: John Carr: voce – John Lind: chitarra – Helge Gårder: basso – Are Gjarde: batteria, tastiera
Tracklist: 1. Element Of Sorrow – 2. Maanelys – 3. One Eyed God – 4. Where The Spirits Gather – 5. The Ungodly Path – 6. Pagan Manifest – 7. Echo Of The Goddesses Voices – 8. Gnipahellir
Il 2004 vede la pubblicazione di Pagan Manifest, debutto dei norvegesi Ulvhedin. Ma, soprattutto, il 2004 è l’anno durante il quale l’Einheit Produktionen rilascia il primo disco, proprio Pagan Manifest. L’etichetta tedesca diventerà con gli anni una sicurezza per gli appassionati di pagan/folk metal, genere nel quale si è specializzata producendo pregiate perle dell’underground sotto il nome di Odroerir, Andras, Oakenshield, Surturs Lohe e Nine Treasures tra gli altri.
Gli Ulvhedin si formano nel 1994, ma solo quattro anni più tardi arriverà il demo Gnipahellir, dal quale ripropongono in Pagan Manifest due brani per l’occasione leggermente ri-arrangiati, ovvero The Ungodly Path e la conclusiva outro strumentale Gnipahellir. I tempi per la formazione scandinava sono sempre stati lunghi, e tra il demo e il disco di debutto passano sei anni, ma la musica nonostante lo scorrere del tempo non varia di una virgola: viking metal d’annata senza fronzoli e orpelli particolari. Dritti al punto, senza deviazioni e distrazioni, otto canzoni e quaranta minuti per dire quel che c’è da dire. Sotto la mano di Pytten che si occupa della produzione (ricordiamolo al lavoro con Windir, Enslaved, Burzum, Einherjer, Immortal e Mayhem per citarne alcuni) e registrato nel Grieghallen Studios, Pagan Manifest suona crudo e sincero, lontanissimo dai suoni pompati e artificiali di questi anni; il cd suona come la band suonava realmente in sala prove, e lasciandosi trasportare dalle note del disco si torna con la mente a tanti anni fa, quando si andava ad assistere alle prove del gruppo amico e nella saletta c’era quell’odore tipico degli amplificatori valvolari che si scaldavano e ruggivano al suonare del chitarrista, e la musica era vissuta in maniera diversa e tutti si sognava un futuro su di un palco con migliaia di persone a cantare le canzoni scritte proprio in quella saletta.
La notorietà gli Ulvhedin, invece, non la conobbero mai. Pagan Manifest è stato in realtà registrato nel 2000 ed era prevista la pubblicazione per la Native North Records, una piccola etichetta gestita dagli Einherjer che rilasciò una manciata di produzioni prima di chiudere in men che non si dica. Per vedere la luce Pagan Manifest impiegò quattro anni, ma ormai il treno era passato, con gli Ulvhedin in ritardo su tutto e privi di forze: peccato, perché il disco merita e la musica è di qualità. Non si parla di sound camaleontico come quello degli Enslaved o epico come quello dei Windir, ma il viking metal diretto e gaiardo degli Ulvhedin aveva tutto il potenziale per accontentare l’ascoltatore dell’epoca. L’opener Element Of Sorrow è uno dei pezzi meglio riusciti, capace di riunire in cinque minuti tutte le sfaccettature del sound dei nostri, con il doppio cantato pulito/growl, le aperture melodiche e il buon guitar work che nulla invidia a chi “ce l’ha fatta”. One Eyed God è più aggressiva e bada poco alle chiacchiere:
Odin! Ruler of Valholl
Hear my call
This time it will last
Your gif twill awake the past
Where The Spirits Gather ha il gusto melodico che era dei Dissection e la cosa non può che fare piacere, la title track è parecchio ispirata (con i mid-tempo gli Ulvhedin si trovavano alla grande) e se c’è una canzone che avrebbe potuto fare le fortune del gruppo con un video ben fatto, questa sarebbe proprio Pagan Manifest. Infine arriva Echo Of The Goddesses Voices e il suo approccio quasi progressive (una sorta di Enslaved prima che gli Enslaved lo facessero veramente) che suona fresco e intrigante. E mentre la strumentale Gnipahellir risuona intorno a noi, le domande e le riflessioni nascono spontanee: come ha fatto il viking metal a trasformarsi in una sorta di carnevalata di 365 giorni? Perché l’immagine e il suono è più importante di una canzone ben fatta? Perché ci si è allontanati sempre di più dallo spirito iniziale, finendo a mendicare soldi con merchandise sempre più stravagante (e inutile) invece di pensare all’unica cosa che realmente conta, ovvero la musica? Sono domande che noi tutti dovremmo rivolgerci e, con un po’ di umiltà, capire in quale direzione muoverci per non perdere del tutto questa arte. Pagan Manifest? Il manifesto pagano di un certo modo di fare musica, quando i soldi, i follower, le magliette fighe e l’idromele annacquato nei corni marchiati con i loghi delle band non erano neanche nei pensieri del più affamato musicista, il quale pensava a far funzionare il cambio tra strofa e bridge e non alle altre cose. Pagan Manifest è un capolavoro indispensabile per la sopravvivenza del viking metaller? No di certo, ma è uno gran bell’esempio di come la musica fosse realizzata e vissuta prima di internet e di tutto il resto: già solo per questo dovrebbe far parte della libreria musicale di chi vuole suonare questo genere. E forse non c’è eredità migliore per un gruppo che non ha fatto in tempo a veder venduto il proprio cd che già si era sfasciato.
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