Intervista: Atlas Pain

Secondo disco e secondo centro per gli italiani Atlas Pain: Tales Of A Pathfinder (Scarlet Records) è la naturale prosecuzione di quanto fatto con il debutto What The Oak Left, spostando l’asticella ancora più in alto, con coraggio e determinazione. Tra giri del mondo, steampunk e verdure da mangiare, la chiacchierata con i ragazzi lombardi è da leggere tutto d’un fiato!

Due anni fa avete esordito con What The Oak Left. Ora tornate sul mercato, sempre con Scarlet Records, con il nuovo Tales Of A Pathfinder: cosa è successo tra i due album? Quali sono i ricordi più belli di quello che avete vissuto dopo la pubblicazione del debutto? E quali sono state le cose che vi hanno fatto crescere come musicisti e come gruppo?

Due anni che sono davvero volati, te lo posso assicurare! What The Oak Left ci ha portato nel tempo una serie innumerevole di sorprese, a partire dalla grande accoglienza del pubblico fino all’opportunità di poter portare la nostra musica fuori dai confini italiani e questa cosa ci ha dato la giusta carica per mettere tutto noi stessi nel lancio del secondo album Tales Of A Pathfinder. La gioia è indubbiamente tanta, sicuramente non potevamo chiedere di più.

Tales Of A Pathfinder è un concept album e la storia mi sembra essere molto originale e diversa da tutto quello che c’è in giro. Non avendo ricevuto i testi, mi parlate nel dettaglio della storia?

I temi trattati da Tales Of A Pathfinder sono frutto di un’evoluzione stilistica che ha fondato le radici a partire dal nostro debut. L’idea infatti di poter sviluppare un concept prendendo spunto direttamente dalla sottocultura steampunk è un qualcosa che abbiamo ponderato ed elaborato nel tempo. Ne è nato così Tales Of A Pathfinder, un racconto a cavallo fra fantasy e veridicità storica. Possiamo identificarlo, diciamo, come una sorta di nostra interpretazione personale de Il Giro Del Mondo in 80 Giorni di Verne, nel quale noi prendiamo le redini del viaggio e accompagniamo l’ascoltatore in diverse tappe geografiche del nostro mondo, ogni volta con l’obiettivo di trarre una morale ed un insegnamento dalla cultura propria del paese interessato. Quest’idea ci ha permesso di poter spaziare a 360 gradi nei confronti delle tematiche affrontate, sempre ovviamente dando modo al classico timbro musicale proprio degli Atlas Pain di poter condurre la storia.

Potrà esserci un “futuro” diverso dalla musica per questo concept, che so, un fumetto o un libro?

Guarda, la vedo davvero difficile. Come detto precedentemente è un concept che trae forte ispirazione da opere letterarie già famose, trasformandole e facendole nostre con leggende e storie tradizionali appartenenti alle culture più disparate, il tutto condito ovviamente dalla nostra musica. Trasporre questa formula in qualcosa al di fuori della musica stessa sarebbe come cercare di replicare l’irreplicabile. Giochiamo nel nostro territorio in completa sicurezza, ah ah ah!

Turisas + Equilibrium + una forte dose di personalità. Rende l’idea di quello che è il suono degli Atlas Pain?

Direi che hai fatto centro. Ognuno di noi all’interno del gruppo ha un proprio background musicale, per certi aspetti completamente differente l’uno dall’altro. Ma posso assicurarti che è proprio grazie all’amor comune per il pagan metal che gli Atlas Pain riescono a portare avanti il proprio sound. Le contaminazioni sono molte ma sicuramente hai citato due fra le band più rappresentative del nostro stile. Prima di essere musicisti siamo fan della musica che ascoltiamo, ed è proprio questo il motore che ci spinge a rielaborare le nostre idee e a spronarci nel comporre musica che davvero viene dal cuore, senza compromessi.

La copertina è di grande impatto e ricca di dettagli. Rappresenta forse tutti i veicoli utilizzati nella storia per compiere il giro del mondo? Potendo scegliere, quale mezzo usereste come coreografia dei vostri concerti?

La storia che narriamo all’interno di Tales Of A Pathfinder è molto ariosa e priva di dettagli tecnici, abbiamo preferito dare un’infarinatura che potesse portare la critica e il pubblico ad identificarlo come concept album, ma al di fuori di questa linea comune non vi è una vera e propria descrizione dell’avventura in sé. Sicuro la copertina aiuta l’ascoltatore ad immaginarsi un proprio viaggio e, considerando il setting di tardo Ottocento, è abbastanza obbligato che la scelta ricada poi sui mezzi rappresentati nella copertina, quindi in parte potrei risponderti di sì. Per quanto riguarda la coreografia, cavolo, si viaggia con l’immaginazione! Il giorno in cui potremmo permetterci di salire sul palco anche solo con una bicicletta sarà un gran giorno!

Per la copertina vi siete avvalsi della mano di Jan “Orkki” Yrlund, un nome che non ha bisogno di presentazioni. Come sono stati i contatti con lui (email o telefonici) e come siete arrivati al risultato finale?

È la seconda volta che abbiamo il piacere di lavorare con Jan e anche per questo nostro lavoro non possiamo che esserne felici. Bastano sempre poche parole, una descrizione della nostra musica, dei brevi messaggi sui social e poi lui subito se ne esce con il concept grafico già fatto e finito, centrando sempre l’obiettivo. È un tipo easy, con un calendario serratissimo (considerando anche i colossi del metal con cui si ritrova a lavorare). Basta aver pazienza, perché molte volte con lui è ‘buona la prima’.

L’aspetto estetico è per voi molto importante e il “cambiamento” dai primi Atlas Pain a quelli odierni è cosa da non poco conto. Come siete arrivati a questo punto, perché ci siete arrivati e avete mai avuto “paura” nel farlo?

Esattamente. L’outfit che noi portiamo sul palco fa parte di un incastro di ragionamenti ponderati nel tempo e sempre funzionali alla nostra proposta, partendo dalla musica, fino alla scenografia dei nostri concerti. Indubbiamente, anche a livello visivo, gli Atlas Pain hanno completamente stravolto il proprio aspetto nel tempo, passando da uno stile prettamente canonico e abbracciando anno dopo anno sempre di più l’immaginario steampunk. È una scelta molto più vicina alle nostre corde, considerando anche l’impronta pesantemente ‘bombastic’ (concedimi il termine) della nostra proposta musicale. Paura non ce n’è mai stata, ma curiosità sempre tanta. Noi sai mai come il pubblico possa accogliere determinati cambi di rotta, anche se minimi e molte volte totalmente ininfluenti, musicalmente parlando. Siamo in ogni caso sicuri che, soprattutto in questi ultimi anni, il pubblico sia sempre di più abituato a produzioni d’impatto, dove anche l’occhio vuole la propria parte. Noi cerchiamo sicuramente di fare del nostro in tal senso.

Lo steampunk sembra essere un mondo molto lontano da quello heavy metal, voi invece siete riusciti ad unire questi due aspetti/filosofie in maniera naturale e convincente. Sono curioso di sapere a chi è venuta l’idea e come vi siete approcciati a questo nuovo e fighissimo mix.

Innanzitutto ti ringrazio per i complimenti! L’idea è partita dall’esigenza di staccarci dalla canonica idea di outfit, a volte fin troppo abusata nel genere. Volevamo provare a portare qualcosa di nuovo e sufficientemente fresco, sempre cercando di rimanere fedeli all’impronta cinematografica propria del nostro stile. Sicuramente lo scenario steampunk ci ha aiutato in tal senso, definendo già di per sé uno stile che si presta ad essere molto teatrale e d’impatto, lasciandoci tra l’altro molta libertà nello sviluppo tematico delle canzoni, potendo parlare di tradizione così come di tematiche fantasy.

La letteratura ha in qualche maniera influenzato gli Atlas Pain?

Senza dubbio, in particolare per questo ultimo lavoro, per i motivi sopra citati. La nostra fortuna si basa nel poter spaziare a 360° fra diverse tematiche, dandoci sempre totale libertà artistica, e questo ci permette di attingere da diverse fonti d’ispirazione, partendo dalla letteratura, passando per arte visiva e, perché no, anche per la filosofia. Oltre a tenerci svincolati da qualunque paletto tematico (come molte volte il genere richiede) questo ci da la possibilità di poter sviluppare inoltre storie sempre e solo partendo da ciò che in quel determinato momento ci sentiamo di scrivere.

What The Oak Left si può considerare come un biglietto da visita, Tales Of A Pathfinder è la conferma della vostra bravura, cosa rappresenterà, invece, il prossimo disco?

Chi lo sa? Ogni disco per noi è sempre una scommessa. Quello che posso assicurarti è che Tales Of A Pathfinder ha rafforzato ancora di più il nostro sound e ha tracciato un percorso stilistico che permette anche agli ascoltatori di poter immaginare fin da subito ciò che in futuro possiamo proporre. Per quanto invece riguarda il mood dei prossimi lavori, sicuramente è troppo presto per poterti dare indizi, ma ‘catchy’ sarà in ogni caso la parola chiave.

C’è stato un momento in particolare durante il quale vi siete guardati negli occhi e vi siete detti “sì, stiamo sulla strada giusta”?

Purtroppo questa è una domanda troppo difficile per poterti dare una risposta secca. Sicuramente i risultati che stiamo ottenendo sono il perfetto carburante per poterci spingere ogni volta a dare di più. Questo vale sia per l’accoglienza da parte di pubblico e critica dei nostri lavori in studio, che per la risposta dei fan durante i nostri concerti. La soddisfazione più grande, tra l’altro, è notare come, nonostante le lunghe distanze, la nostra musica venga apprezzata da gente di tutto il mondo: quando scendi dal palco di qualche festival europeo ed arrivano apprezzamenti su musica e performance è sempre una gran gioia. Finché questo accadrà noi saremo sempre in prima linea!

Vi ringrazio per la chiacchierata. Vi seguo fin dal primo demo e sono molto contento per voi perché con un suono personale siete riusciti ad arrivare a un’etichetta importante e soprattutto a pubblicare dischi di qualità. A voi le ultime parole dell’intervista!

Grazie a voi dello spazio e del tempo dedicatoci. Cerchiamo sempre di andare avanti a testa dura, guardando a ciò che abbiamo fatto e, step by step, puntare sempre al gradino successivo. Ascoltate buona musica, mangiate verdure e fate sport. Mi raccomando!

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