Intervista: Vallorch

Tanti anni di silenzio e poi il ritorno, inaspettato, con un nuovo – brillante – lavoro, The Circle. I Vallorch hanno molto raccontare e nelle due ore e mezza di chiacchierata c’è stato modo di parlare del cd da poco pubblicato, di cosa è accaduto dopo Until Our Tale Is Told del 2015 e della scena folk metal italiana, passata e presente.

La domanda più scontata: cosa è successo in questi 10 anni di assenza, durante i quali in tanti abbiamo pensato anche allo scioglimento?

Sara: c’è stato il rischio di sciogliersi, abbiamo avuto un sacco di cambi di formazione, se ne è andato il chitarrista Marco Munari che era uno dei fondatori e siamo rimasti io, Leo, Max e Marco “Folk”; anche Mattia Buggin che aveva percepito lo stallo in cui eravamo ha deciso di andarsene, pur offrendosi per aiutarci in caso di concerti futuri. Sapevamo di dover lavorare al nuovo album, ma non riuscivamo a trovare un punto di partenza (erano già passati 4 o 5 anni da Until Our Tale Is Told), fino a che Marco “Folk” non ha iniziato a portare del materiale completo, che ci ha fatto capire che la sua visione era quello che mancava e che così effettivamente il progetto aveva ancora qualcosa da dire. Tutto il periodo del Covid lo abbiamo passato a comporre e abbiamo avuto il tempo di fare tutto con calma e di dedicarci completamente al nuovo album. Abbiamo voluto coinvolgere Mattia Buggin per gli assoli e l’arrangiamento di alcune parti di chitarra e l’ascolto delle canzoni l’ha convinto a tornare nella band a tutti gli effetti. Dalla registrazione di The Circle alla sua uscita è passato circa un anno durante il quale abbiamo cercato di ottenere il meglio possibile sia dai brani che avevamo composto che dalla registrazione, abbiamo quindi cercato un’etichetta: la Rockshots Records ha deciso di collaborare con noi. Per l’uscita di un disco così importante per noi abbiamo anche fatto finalmente dei videoclip, cosa che non avevamo mai fatto prima, e infine abbiamo ricominciato con i concerti e ora siamo pronti per tornare alla carica.

Avete vissuto un lungo periodo particolarmente difficile: c’è stato un momento o un avvenimento che vi ha dato la forza per insistere e portare avanti il nome e quanto di buono già fatto.

Sara: innanzitutto che i Vallorch sono stati l’unica costante della mia vita e non mi andava di mollare, in seconda battuta sicuramente la validità delle proposte fatte da Marco, perché a livello compositivo ha fatto quasi tutto lui e le sue proposte erano davvero valide e quindi non mi andava di mollare.

Leo: Se dovessi dirlo in una sola parola ti direi il “Folk”, fine (ride, nda). È stato lui. Nello specifico è stato quando il Folk ha portato Circle Of The Moon che era praticamente finita. Per tanti anni siamo stati fermi perché non riuscivamo a uscirne, ma nel momento in cui il Folk è entrato, è iniziato un processo lento in cui ci credevamo sempre di più. Un altro momento è stato quando ci siamo messi un po’ a nudo, ho detto “ragazzi, voglio riprovarci: ho 50000 idee sulla musica che ha fatto il Folk su testi e tematiche, ci credo tantissimo e sono certo che riusciremo a rinascere”.

Marco: io sono arrivato nel 2019 e ho cercato di portare il mio contributo. Abbiamo scelto di rimanere con il nome Vallorch (nel 2022 abbiamo deciso di usare la giusta pronuncia, con l’accento sulla “o”, come il villaggio cimbro da cui deriva il nome) e di portare avanti la tradizione dei Cimbri, poiché personalmente è qualcosa che a me tocca molto da vicino, dal momento che provengo da Recoaro Terme, un piccolo comune dell’Alto Vicentino “fondato” appunto dai Cimbri, popolazione germanica che in epoca medievale ha colonizzato e fondato i primi nuclei abitativi sulle alture circostanti al centro abitato attuale, dei quali oggi rimangono toponimi, cognomi, usanze e modi di dire; quindi abbiamo pensato, perché non mantenerlo, visto che le canzoni che avevamo in mente di fare avevano un forte legame con queste terre?

Negli anni avevate comunque scritto qualcosa che è poi finito su The Circle oppure è tutto materiale nuovo?

Leo: C’è una traccia presa dalle “idee vecchie”, il resto è tutta farina del sacco dei nuovi Vallorch. The Wild One avevamo iniziato a scriverla prima, con la formazione vecchia, ma non riuscivamo a finirla. Il resto è tutto materiale nuovo.

Iniziamo con The Circle: perché questo titolo e se la copertina – che è molto bella – ha un legame specifico con i testi o una canzone in particolare.

Leo: la copertina è fatta da Elisa Serio, artista che raccomando per la sua bravura. Arrivare alla quadra della copertina è stata lunga, fino ad arrivare a lei che ci ha mostrato quattro bozze della copertina, bella, bellissima! Il titolo del disco è stato l’ultimo tassello. I brani sono nati a briglia sciolta: tematicamente volevo mantenere un filo conduttore ma non fare un concept. Volevamo che i pezzi funzionassero sia singolarmente che nell’insieme, quindi è partito il processo creativo alla fine del quale si è andata a delineare una tematica: la notte, protagonista di tutte le canzoni nelle sue varie sfaccettature. The Circle prende da Circle Of The Moon e voleva essere una sorta di statement sia per riferirsi al brano, ma soprattutto per esemplificare sia il cerchio che viene espresso nel testo come cerchio rituale, che utilizziamo per definire il noi (Vallorch e chi ci ascolta) e per la ciclicità della luna, con le varie fasi lunari. Siamo partiti da questo per fare poi tutto il resto, volevamo dei simboli personali ma anche d’insieme, abbiamo chiesto a Sofia (silvatica.draws) di farci dei sigilli personali che poi ha combinato per fare in modo che ogni fase lunare rappresentasse uno di noi. Questo ha influito anche nella creazione dei costumi (realizzati da Verdiana) – The Circle rappresentava alla perfezione il concetto sia di cerchia che di cerchio lunare.

Data l’importanza dei testi, nasce prima la parte musicale e poi lavorate sui testi oppure create musica in base a quanto scritto nel testo?

Leo: Non c’è una risposta unica. A volte succede che il Folk abbia l’idea della canzone e la propone, io poi ho lo spunto per il testo, ma ad esempio su Antermoia e abbiamo lavorato al contrario.

Marco: per me un disco folk/power/symphonic dovrebbe essere vario, con almeno una ballad e una drinking. Abbiamo lavorato a un pezzo che però non funzionava, a me è venuta l’ispirazione, ho girato l’idea a Sara che ci ha scritto la linea vocale e da lì è nata Antermoia. Invece per Röte Löon, nome cimbro di una montagna, è la storia di una frana avvenuta la prima volta sul finire del 1700. Il testo è in cimbro e devo ringraziare il mio amico Andrea Urbani detto “Il Cimbro” che mi ha aiutato a scriverlo in maniera corretta. Il brano è nato dai primi giri di cornamusa che ha scritto Sara. Un’altra cosa che ho in mente che non può mancare in un album di questo genere è la suite, il brano lungo, è stato un processo molto intenso, c’era inizialmente un pezzo di otto minuti ma senza capo né coda, l’abbiamo scartato e rifatto da nuovo, in questo modo è nato Dyssomnia

Leo: Fino all’album precedente avevo detto ai ragazzi che ci tenevo a scrivere i testi perché è una cosa che ho a cuore, ma per The Circle ho deciso di mettermi in discussione. Avevo desiderio di parlare della storia di Antermoia e ho detto a Sara che avrei voluto un testo in italiano scritto da lei. Abbiamo parlato parecchio di questa decisione, così come per il testo in veneto, perché non sapevamo se avrebbe funzionato o meno. La cosa bella di questo processo creativo è stato che basandoci sul talento di Marco abbiamo proposto le nostre idee cercando di tirar fuori il nostro meglio perché l’obiettivo era solo uno: dopo dieci anni dovevamo fare l’album più bello possibile! Noi siamo contentissimi di quanto fatto e diciamo sempre che abbiamo pubblicato il nostro album preferito.

Direi, a questo punto, di fare una panoramica sui testi.

Leo: il filo conduttore di The Circle è la notte, quindi calma e riflessione, ma anche festa e convivialità, allegria, compagnia, insonnia, inquietudine e solitudine. I cerchi lunari indicano le fasi della notte, silenzio e caos, la notte come il momento che permette alla nostra natura di uscire allo scoperto. L’album inizia con To The Silver Summit, che prende spunto dalla leggenda dei Monti Pallidi. Leggenda delle Dolomiti, parla del principe delle Dolomiti e del perché i monti hanno questo nome. Il regno delle Dolomiti vive nella pace, l’unico che è perennemente tormentato è il principe, dilaniato dal desiderio di andare sulla luna. Decide di intraprendere un viaggio fino alla cima dei monti per poi approdare sulla sommità argentea, la “Silver Summit”. La leggenda originale si focalizza sull’aspetto romantico della storia d’amore con la principessa della Luna, mentre la chiave di lettura del brano è il desiderio di arrivare sulla vetta, di scoprire qualcosa di nuovo e la determinazione di smettere di soffrire. Reinterpreta il concetto di desiderio e mancanza, permette all’ascoltatore di immedesimarsi nel principe che parla in prima persona, il percorso fino alla sommità del monte è pieno di ostacoli e rende la volontà sempre più debole. Il desiderio di cambiamento si trova soprattutto nel cercare la felicità e un proprio spazio, nel non voltarsi indietro ma fare almeno un altro passo. La luna è il futuro e il viaggio è la scoperta di sé, di speranza, un monito a non arrendersi, un tema che mi è molto caro perché la stesura del brano è stata concomitante al mio percorso di terapia. Ascoltatori più attenti vedranno paralleli con la sconfitta della depressione, altri saranno soddisfatti con la sola storia.

Proprio questa mattina ho letto un racconto di David Foster Wallace, scrittore statunitense, il titolo è Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta (da Questa è l’acqua, Einaudi) e parla proprio della depressione. Inizialmente sembra quasi fantascienza, invece man mano che si avanza con il racconto, soprattutto conoscendo la storia di Wallace, si capisce che tutto ruota intorno alla depressione. È un racconto che fa male, tanto più conoscendo la vita dell’autore.

Leo: è un modo di scrivere che mi piace molto perché (specie nel genere che facciamo) si canta molto di storie e tradizioni, perdendo la possibilità di raccontare qualcosa di intimamente tuo. Mi piacciono molto i media con questi due livelli di narrazione come nel racconto che mi hai citato, come anche mi piace lasciare uno spazio interpretativo. Il secondo brano è Hellpath, e si rifà a una fiaba della tradizione cimbra che ho trovato tra il materiale che mi è stato dato qualche anno fa al Centro di Cultura Cimbra. Il curatore aveva un sacco di opuscoli e materiale, incredulo che un giovane si interessasse alla nostra cultura, quindi mi ha lasciato davvero tanti libri e opuscoli. Questo è il racconto dei 99 Sentieri dell’Inferno e vede protagonista un giovane che fa il classico patto col diavolo per avere ricchezza in vita, per poi pentirsene in terza età. Stando al patto, il diavolo si sarebbe preso la sua anima a meno che il vecchio non avesse indovinato quanti sentieri ha il giardino dell’inferno. Così il vecchio si traveste da bestia e riesce a ingannare il diavolo, che vedendolo passeggiare nel giardino dell’inferno sbotta “tra tutti i 99 sentieri del mio giardino non avevo mai visto una bestia brutta come questa”. Il brano prende l’immaginario dei sentieri e li concettualizza come le decisioni prese nella vita di una persona: errori, rimpianti, scelte giuste e sbagliate e sono tutti gli infiniti sentieri che alla fine portano alla morte. Il diavolo parla all’io narrante sussurrandogli che la sua ora arriverà presto: è una canzone di rimorsi, rimpianti, incertezza, autosabotazione. Rappresenta l’ansia. Ho preso il giusto sentiero? Era giusto l’altro? Qualunque strada io decida di prendere il finale è uno solo: verrò dimenticato. Ma alla fine vivere è cercare di non perdersi, farsi fiamma dall’essere mite. Proseguire per il proprio sentiero fino alla fine, gabbare il diavolo e imparare a ballare sul sentiero arroventato che hai scelto.

Si prosegue con Circle Of The Moon, canzone molto semplice, anche dal punto di vista del testo, che trae ispirazione da due direzioni. Prima ti menzionavo i tanti libri che mi hanno dato al Centro di Cultura Cimbra, da uno di questi abbiamo tratto Slèrach, dove viene romanzata l’origine dei Cimbri in un periodo pre cristiano. Nel racconto, le giovani del villaggio erano solite pregare la luna: Slèrach racconta proprio della vicenda del libro, dove grazie alla preghiera e la danza avviene un miracolo e si ritrova curato dalle sue ferite, mentre per Circle Of The Moon ho voluto mantenere l’immaginario delle ragazze che danzano a cerchio e svilupparlo più concettualmente. Le giovani danzano liberamente per avere il favore della dea Maano, cosa che ha poi ispirato il nostro video musicale. Lo stesso danzare intorno alla luna simboleggia la volontà di prendersi la propria libertà, è un concetto estremamente gioioso, una riscoperta della volontà di vivere. La luna è madre e morte, inizio e fine, il cerchio, che dà il nome all’album, diventa la vita stessa. Il ritorno alla natura, il tribale, rifiuto della condizione umana volta a produrre, la gioia della vita che ti richiama a vivere: un concetto che magari è terra terra.

Sì terra terra, ma vuol dire spogliamoci da questi ruoli, queste pesantezze della vita, spogliamoci e balliamo. Magari è un auspicio per tutti, farebbe bene trovare un equilibrio, perché è questo che manca fondamentalmente.

Leo: Su Drink Some More! volevamo una canzone stracolma di doppi sensi, nasce conscia di essere un inno alla convivialità, e puro divertimento. Bevi! Non c’è una tematica seria, ma è questo il bello. Volevamo prenderci questa libertà e l’abbiamo fatto. Antermoia racconta, tramite la sensibilità di Sara, della leggenda del lago di Antermoia.

Sara: Si ispira a questa leggenda che narra la nascita del lago Antermoia, lago che realmente esiste sulle Dolomiti. È la leggenda di Antermoia e Oswald “man de fer” (mano di ferro, ndMF). Oswald è un boscaiolo i cui genitori, per proteggerlo da una profezia che prevede che lui soffra in eterno per colpa della musica, decidono di lanciare su di lui un incantesimo così che qualsiasi strumento musicale egli tocchi vada in frantumi. Nel girare i boschi sente una melodia meravigliosa e incontra Antermoia, ninfa che canta e suona sulla riva del lago. I due si innamorano, Antermoia dice a Oswald “non dovrai mai conoscere il mio nome perché i rapporti tra umano e il sovraumano non sono consentiti altrimenti io sparirò”. Oswald è completamente assorbito da questo amore e vuole assolutamente sapere il nome della sua amata. Per caso sente il suo nome da alcuni paesani che stavano parlando tra di loro, e quando torna da Antermoia non riesce a resistere dal chiamarla per nome. In quel preciso istante lei svanisce e dalle sue lacrime nasce il lago di Antermoia. Ho voluto incarnare la voce di lei che arrabbiata dice a Man de fer “perché hai voluto sapere il mio nome e pronunciarlo ad alta voce quando il nostro amore era così bello? Facendo così hai fatto sì che il nostro amore non sia più possibile”. Così “maledico quel giorno che la musica ti portò da me” (cita il testo, ndMF), incarna tutta la sofferenza di Antermoia.

Adesso con le spiegazioni che mi state dando le canzoni prendono una forma diversa perché c’è anche la comprensione del testo. Questo dell’avere solo una parte del materiale è uno dei problemi del web e della musica liquida perché noi ascoltatori perdiamo parte dell’opera: un conto è ascoltare la musica che è bella e ti piace, un altro è avere sotto gli occhi i testi (ma anche la grafica e tutto il resto) ed entrare maggiormente in sintonia con il gruppo. Ora con il racconto dei testi già “ascolto” i brani nella mia testa in maniera diversa.

Sara: è un’esperienza a tutto tondo, già che leggi i testi e capisci quello che c’è dietro. Magari leggendo un’intervista nella quale gli artisti li spiegano tu puoi rivivere quello che loro hanno vissuto quando hanno scritto quelle canzoni.

Chiunque leggerà questa intervista potrà saperne molto di più su The Circle e sul mondo Vallorch.

Leo: Infatti! Siamo contenti, perché nel booklet avevamo spazio limitato e non potevamo mettere la storia per intero, però è bello poterlo fare nelle interviste. Sicuramente proseguiremo sul web con contenuti per approfondire queste tematiche.

Passiamo a Röte Löon.

Marco: sarebbe il nome in cimbro di una montagna delle Piccole Dolomiti, nei pressi di Recoaro Terme appunto, ed è traducibile come “Frana Rossa”. Parla di una grande cicatrice sulla montagna, lasciata da una frana a fine ‘700 e visibile ancora oggi, poiché sin da allora continua a franare ogni tot anni. Rossa per via degli ossidi di ferro presenti nella roccia, ma all’epoca si pensava proprio fosse una ferita sanguinante e ancora oggi, soprattutto quando piove con una certa intensità, le colate di fango e detriti ricordano dei rivoli di sangue che scendono verso valle. Volevamo scrivere un testo in cimbro, che è una lingua morta di cui rimangono fonti di termini prevalentemente d’uso concreto e quotidiano, piuttosto che di sentimenti e concetti astratti. Quindi, abbiamo deciso di raccontare la storia della frana: durante una notte, dopo un mese e mezzo di pioggia ininterrotta, si staccò questo enorme pezzo di montagna che piombò verso valle (fortunatamente senza provocare vittime tra le persone nei villaggi sottostanti), causando importanti disagi tra ponti crollati e strade rese impraticabili. Le comunità dovettero mettere da parte screzi e antipatie per unirsi e ricostruire ciò che era andato distrutto. Inizialmente si parla del cielo nuvoloso, della pioggia, della gente che vive la quotidianità della vita in montagna, come il lavoro nei campi o in stalla; poi la terra che improvvisamente trema e lo spavento, la paura e lo sconforto di fronte all’immensa forza della natura. I rivoli di sangue sulla montagna rappresentano le discordie e dissapori tra le persone dei villaggi sottostanti, mentre la frana stessa diventa metafora del voler ricercare la propria libertà a danno delle altre persone, costringendole poi a unire le loro forze per ricostruire ciò che è andato distrutto.

Nel frattempo ho cercato le immagini di questa montagna ed è impressionante, sembra proprio sangue, un fiume di sangue!

Marco: Proprio così! È comunque una frana ampiamente studiata e monitorata, anche dall’università di Padova, proprio per la presenza di diversi centri abitati verso valle.

Sto vedendo infatti che ci sono dei paesini, contrada Maltaure, contrada Turcati, contrada Parlati.

Marco: esatto, Parlati, che però non c’entra nulla col verbo “parlare”, ma proviene dal cimbro “Perlaiten” che significa “Pendio (o riva) dell’Orso”.

Mi è capitato di parlare con i Kanseil e rimango affascinato, adesso anche con voi, per questa grande passione e legame col territorio, trovo la cosa molto bella. Qui a Roma è cosa diversa, nel nostro genere ci sono i Dyrnwyn che parlano dell’antica Roma e i Blodiga Skald che parlano di orchi, il resto dei gruppi anche passati, tolti gli Ade, sembrano fregarsene della cosa. Da osservatore capisco che se parli dell’antica Roma è un attimo essere scambiato per un fascista, però credo ci sarebbe tanto da raccontare. In fondo, è una cosa che vale per tutta l’Italia, è più facile parlare di vichinghi invece del territorio. Non che ci siano solo i romani, per esempio gli AitA parlano degli etruschi. Ripeto, da osservatore, perché non è necessariamente un bene o un male, vedo che principalmente al nord è dove c’è un interesse e legame col territorio che si rinnova anche grazie alla musica.

Leo: Avrai notato che anche noi, nei primi brani, in particolare su Neverfade ci siamo approcciati più con entusiasmo giovanile alle tematiche, della serie “sì che figo facciamo folk metal! Facciamo un pezzo sui vichinghi!”. Soprattutto quando è entrato nella band il Folk, ci ha detto “io sono legato al territorio, facciamo anche qualcosa di più “nostrano”, senza che però diventi un limite”.

Per me ognuno può parlare di cosa preferisce, a me i vichinghi piacciono un sacco, ho un grande legame con loro, però mi piace anche il legame con le tradizioni e le storie del territorio.

Leo: Certo, hai perfettamente ragione. Trovo belle ambo le cose, purché rimanga intatta la creatività.

Torniamo ai testi e in particolare a Salbanèo.

Leo: È stato il primo testo che abbiamo scritto a cinque mani, tutti insieme.

Sara: Il Salbanèo è un folletto che fa dispetti.

Quello con il berretto rosso?

Sara: esatto! Ricorre in tantissime leggende. Dopo aver fatto testi in italiano, inglese e cimbro ci siamo chiesti: perché non farne in veneto? Noi veniamo da zone diverse e abbiamo dialetti diversi, per questo motivo lo abbiamo scritto tutti insieme. La storia è quella di un ubriacone che sta tornando a casa, inciampa su un sasso e si dice “sarà stato il Salbanèo”, che è un modo di dire nostrano. Se cammini e ti si slacciano le scarpe dici “maledetto Salbanèo”. Prendendo questo modo di dire il testo parla dell’ubriacone che insegue il Salbanèo, lo riempie di insulti ma non riesce a prenderlo. Alla fine dice “sono troppo ubriaco per inseguirlo, me ne vado a casa”.

Quindi è tipo lo Squass dei Furor Gallico?

Leo: Sì ci sono tante tradizioni con questo folletto dispettoso. L’intenzione dietro la canzone era quella di fare un pezzo “ignorante”, super pestone che facesse ridere noi in primis, pieno di chicche per chi è veneto. Il cantato ricorda quello dei Catarrhal Noise (band thrash/comedy metal del Veneto, ndMF), realtà delle nostre zone che ha fatto poi nascere i Rumatera (gruppo punk rock che, tra le altre cose, ha fatto l’inno del Benetton Rugby, ndMF). Quello che vuole passare è che si tratta di un brano divertente, casinaro, con il testo dal contenuto estremamente volgare, al punto che nel booklet c’è un Salbanèo che censura il testo. Una cosa che spero passi anche ai lettori è che questo album ha una gioia incredibile di fare musica, ogni brano c’è perché lo volevamo fortemente, compresa questa canzone sul Salbanèo. Fare una canzone in veneto non è stata per noi una decisione facile. Per esempio alle volte ci suonava troppo rozzo e pesante per i Vallorch, ne abbiamo discusso a lungo.

Da non veneto posso dire che il significato l’avevo capito pur non comprendendo il testo, ma che la musica spacca, è diversa da tutte le altre canzoni, è immediata, ha quella goliardia che all’ascoltatore medio del folk metal piace, quindi è una carta vincente.

Sara: era nata come bonus track, poi è venuta talmente bene che abbiamo deciso di inserirla direttamente nell’album.

Che poi ha quello stacco di chitarra molto pesante e moderno che non passa inosservato.

Marco: era partito come un brano alla System Of A Down, volevamo un pezzo ignorante, per fare casino.

Leo: Poi c’è The Wild One, che parla del “Dio con le corna”, figura presente in infinite iconografie, in tutto il mondo e tradizioni. Il testo esplora la figura junghiana del dio con le corna, che se ignorato rappresenta il violento e il distruttivo. L’io narrante sta scappando in un labirinto (della sua mente) con un’ombra che lo sta inseguendo, fino a quando l’io non capisce che l’ombra è la sua, se si guarda allo specchio vedrà se stesso con le corna. Incarna il concetto di dover abbracciare la parte più brutta del sé per non farle prendere il sopravvento sul tutto, un concetto che ho sempre trovato interessante. A fine canzone l’io narrante abbraccia l’ombra: la paura che ha provato durante l’inseguimento è paura della parte di sé che non sta accettando.

Arriviamo all’ultima, Dyssomnia… È stato davvero bello comporla. La sfida era di non far pesare il minutaggio all’ascoltare e devo dire che l’impresa l’ha fatta il Folk che ha tirato fuori un brano da nove minuti che sembrano due. Ha talmente tanti mood e ambienti diversi che sulla carta non dovrebbero funzionare e invece funzionano – ha un mood che a me ha ricordato i sogni, ha un che di onirico. La canzone nasce tematicamente dall’ insonnia, apnee notturne, incubi/veglia, e incarna la tematica della notte seguendo questo percorso attraverso la notte interpretandolo come un viaggio tra passato, presente, futuro, rimorsi, speranza, e lo si sente in tutti i mood della canzone. È divisa in atti, e il brano ha una doppia lettura perché può essere visto sia come un pezzo che parla di sonno e sogni sia come una riflessione della vita pre morte. Sonno e sonno eterno.

Devo dire che non sono un fan delle canzoni lunghe, ma la prima volta che l’ho ascoltata non mi sono reso conto della lunghezza.

Leo: Mi pongo sempre l’obiettivo di rispettare il tempo dell’ascoltatore, e cerchiamo di fare il possibile per avere una canzone di qualità.

Ho una domanda su una cosa che non mi ha convinto. Röte Löon e Salbanéo sono gli unici due brani nei quali Sara non canta. Sono due pezzi consecutivi, nella seconda parte dell’album. Perché questa divisione?

Leo: Avevamo delle posizioni per alcune canzoni e altre no. Il core dell’album ha AntermoiaRöte LöonSalbanéo che sono le tre canzoni in italiano, cimbro e veneto. E’ capitato fortuitamente che il core dell’album fosse anche il core della nostra identità. Per esempio eravamo tutti d’accordo che To The Silver Summit dovesse essere la prima, Hellpath la seconda, Dyssomnia l’ultima, mentre il resto l’abbiamo deciso con in un ottica di ascolto per intero. Abbiamo ragionato con l’ordine dei brani che ci piaceva, niente di più.

Parliamo degli ospiti?

Sara: sono Serena Zucco degli Adgarios al violino e Gloria Lyr degli Eard all’arpa.

Che bello il disco degli Eard, uno dei migliori del 2024!

Sara: bello sì, e poi è una mia grande amica. Volendo inserire una parte di arpa, conoscendola, ci ha fatto l’onore di partecipare. Secondo me si sente che il violino e l’arpa sono veri, sappiamo che ormai si possono facilmente sostituire, ma il calore non sarebbe stato lo stesso. Poi sia Serena che Gloria sono bravissime, hanno fatto un lavoro meraviglioso!

Secondo me nel momento in cui appaiono portano realmente qualcosa in più alla canzone.

Sara: soprattutto su Antermoia, che è un brano delicato, ci voleva il suono e il calore di uno strumento vero.

Marco: tra l’altro secondo la leggenda Antermoia suonava l’arpa, quindi volevamo richiamare questa cosa. Man de fer, una volta spezzata la maledizione può toccare gli strumenti e decide di vagare per raccontare la storia di Antermoia. Inoltre il violino era anche per tenere un filo conduttore con i dischi precedenti, perché in formazione c’era un violinista.

Vi ho visti dal vivo e conosciuti in un’intervista nel backstage del Fosch Fest 2012. Poi avete fatto due dischi e il resto lo sappiano. La domanda – che potrebbe sembrare sciocca – è: come sono cambiati i Vallorch dal 2015 a oggi?

Leo: la differenza è abissale, siamo un’altra band. È come se ci fossimo sciolti e riformati. I Vallorch del 2015 quando uscì Until Our Tale Is Told avevano una forma mentis diversa e ci eravamo un po’ persi nel voler dimostrare qualcosa con quell’album. I Vallorch del 2025 sono proprio diversi, iniziando dai cambi di line-up, oltre al ricostruire la band da capo, cambiando del tutto le dinamiche interne. Dieci anni fa eravamo colti in mezzo a un uragano, quello del folk metal in Italia, e dopo Until Our Tale Is Told abbiamo avuto diversi problemi… Non ci vedevamo, non facevamo prove né concerti.

Sara: sicuramente siamo maturati, molto più consapevoli di che cosa stiamo facendo. Prima di costruire queste canzoni ci siamo chiesti il perché, e credo che questo si senta. Cosa voglio esprimere con questa canzone, qual è il mood e a chi ci stiamo rivolgendo, come vado a inquadrarmi nella scena. Anche l’immagine che abbiamo è completamente diversa da quella che avevamo nel 2015. Non è più la band che “ho perché sono giovane e ho semplicemente voglia di suonare”. Suoniamo perché vogliamo davvero farlo, abbiamo poco tempo perché lavoriamo, chi rimane lo fa perché ha degli obiettivi ben precisi in testa, altrimenti non investirebbe tempo e risorse. Avere una band, arrivare ad essere sotto zero e dirsi “vabbè, sciogliamo la band, che ci stiamo a fare?” e riprendere tutto in mano vuol dire anche riscoprire la passione verso la musica, la passione del suonare, e sapere dove si sta andando.

Marco: i Vallorch del 2015 non li conoscevo di persona, conoscevo i dischi e avevo percepito con Until Our Tale Is Told che avevano perso la strada rispetto a Neverfade, che mi era piaciuto molto anche se un po’ acerbo, mentre Until Our Tale Is Told aveva troppa carne al fuoco. Nel 2025 i Vallorch hanno messo ordine, prendendo dal passato ma sistemando la parte musicale e dei testi. Siamo cambiati come persone, maturati, ma anche numericamente: prima eravamo sette, ora siamo cinque. Ora c’è una grande intesa tra di noi.

Qualche parola per descrivere i vostri lavori, partendo da Stories Of North, che ho qua…

Leo: nooo! Ce l’hai, è quello che incollavamo noi a mano!

Se mi date qualche aggettivo, un ricordo per ognuno dei vostri lavori.

Sara: Stories Of North è la gioia, l’entusiasmo. La prima cosa che abbiamo registrato, era tutto nuovo, bellissimo. Neverfade è il cominciare a crederci, che si poteva fare qualcosa di più con la musica. Until Our Tale Is Told io l’ho visto troppo ambizioso senza averne le capacità, troppo caotico. Con The Circle siamo tornati alla gioia, ma consapevole.

Leo: Stories Of North è nostalgia, opportunità e spensieratezza. Neverfade è concretizzazione ma anche frustrazione, fame di crescere e fare, un pizzico di ingenuità. Until Our Tale Is Told è ambizione e frustrazione, sono d’accordo con Sara, è stata una perdita di direzione. L’abbiamo fatto per testardaggine, perché eravamo appena rimasti monchi di Demetrio Rampin e per arrivare a fare qualcosa di grande abbiamo perso di vista chi erano i Vallorch. The Circle è la realizzazione di talmente tanto… sudore, gioia, felicità… Io sono uscito dalla depressione mentre lo scrivevamo, e sono tornato a crederci. Avere qualcosa per cui combattere mi ha dato la forza di andare avanti.

Marco, tu non eri nei vecchi dischi, però un parere da fan e ora da musicista.

Marco: Stories Of North si sente la gioventù, la voglia di mettersi in gioco, un po’ l’ingenuità, da parte mia l’invidia perché avrei voluto fare anche io una cosa così. Neverfade dico consacrazione per l’epoca, la conferma e l’evoluzione di quanto fatto in Stories Of North. Until Our Tale Is Told è stato il voler strafare, per come l’ho percepito io da ascoltatore “non so dove vogliono andare a parare”. Quando sono entrato nella band ho preso i pezzi, li ho smembrati per impararli e allora ho capito dove volevano andare: è un disco per musicisti, ma devi smembrarlo attentamente, dargli tanti ascolti, allora ha un senso perché non è un disco immediato ma che diventa bello se lo si approccia da musicista. Per The Circle ho difficoltà, perché è il mio mettermi in gioco, sono arrivato in una band avviata che però si era adagiata, sono stato quella scintilla che ha dato il via a quello che è diventata adesso. The Circle per me rappresenta tanto, è come un figlio.

Confesso che fa strano vedere come Until Our Tale Is Told sia visto da voi oggi, c’è grande sincerità e umiltà nelle vostre parole.

Leo: Come noi viviamo quello che abbiamo prodotto è sicuramente diverso da quello che prova chi invece ci ascolta. Noi pensiamo a come è nato, quello che è successo, anche il dopo… Poi arriva uno e dice “io l’ho comprato e lo ascolto da dieci anni” e tu ne sei solo che grato. Penso che sia normale che un artista quando fa un nuovo lavoro diventi il suo preferito, perché è convinto di aver fatto il meglio possibile. Non ricordo se fosse così, ma sono sicuro che se vado a leggere le interviste del 2015 probabilmente dicevamo che Until Our Tale Is Told era il migliore che avessimo mai fatto (ride, nda).

Credo che sia normale, sennò perché fare un nuovo lavoro già sapendo che non sia abbastanza buono?

Leo: È anche parte integrante dell’evolversi. Se continui a pensare che quanto fatto prima sia insuperabile non hai la prospettiva di migliorare.

Avete vissuto in prima linea l’esplosione del folk metal in Italia, e ne siete stati parte. Proprio in quel periodo, anche grazie al Fosch Fest, il folk metal è arrivato sulle bocche di tutti, dalle riviste alle webzine, magari non sempre compreso. Con il tempo la “moda” del folk metal è passata e tanti gruppi sono scomparsi. Da musicisti, come avete vissuto questo cambiamento, da una marea di band e tante possibilità per suonare dal vivo a una cosa più intima anche se da abitante del centro Italia continuo a vedere il nord Italia come il paese dei balocchi.

Sara: quando abbiamo iniziato a suonare c’era il boom, il folk era uno dei generi che tirava di più. Con gli anni tanti locali hanno chiuso, c’è tanta voglia di vedere la gente che suona, ma i locali non ci sono più. Secondo me, ora, ci sono tante booking che stanno facendo tantissimo per tirare su gente ai concerti, si cerca di ampliare il pubblico verso chi magari non è abituato ad andare ai concerti. Sento tantissima voglia di vedere concerti, ma con meno locali la gente un po’ si raggruppa.

Leo: L’hai detta bella quando parlavi della scena. Fa strano aver fatto parte di un’ondata, penso che abbiamo avuto fortuna nell’esserci formati nel periodo in cui la marea si stava alzando per tutti. Stava nascendo la scena, e in Italia nello specifico penso che questa sia stata sollevata dai Folkstone. Ho visto gente che ha iniziato a seguirli assiduamente, poi io ho scoperto i Furor Gallico, il Fosch Fest e poi da lì ho iniziato a conoscere gente. Eravamo già parte della scena come fan, ci stava piacendo e poco per volta è avvenuto un fenomeno che ancora non mi spiego. C’era tantissima fame di folk metal e abbiamo avuto la fortuna di essere lì quando c’era interesse. Fortunatamente i fan hanno continuato a seguirci con grande affetto. Nel tempo alcune definizioni delle band sono cambiate, non si parla più di folk metal…

Tipo?

Leo: Gli Alestorm adesso vengono chiamati power metal. Io non li ho mai considerati power, ma forse è cambiata la percezione del genere. Negli anni ’90 il power era una cosa ben definita: La voce che fa gli acuti, il tappeto di doppia cassa, chitarra che segue in sedicesimi… poi è cambiata la definizione del genere, e anche il termine “folk metal” si è andato ad associare ad altri “mega generi”. Come dici tu qui al nord ci sono eventi e ancora tanto interesse, però rispetto a quando abbiamo iniziato con i Vallorch ho visto molti eventi sparire. Ora vedo una piccola seconda ondata di nuovi fan che ascoltano i gruppi di punta che non sono quelli con i quali sono cresciuto io ed è come se ci fosse una nuova generazione con una cultura diversa dalla nostra che sta creando una nuova realtà. È molto bello!

Sono molto felice di questa chiacchierata (durata 2 ore e mezzo!), davvero contento di aver parlato con voi in amicizia e vi rinnovo i complimenti per il nuovo disco. C’è qualcosa che volete aggiungere e che non ho chiesto?

Leo: Magari come nasce un brano dei Vallorch, che ne dici Marco?

Marco: un brano dei Vallorch non nasce per forza da me, nasce da tutta la band insieme, in particolare da noi tre presenti. Quando Sara ha portato i giri di cornamusa per Röte Löon poi ci abbiamo fatto un brano, io ho portato Circle Of The Moon e poi l’abbiamo arrangiata tutti insieme ed è venuta come la si può ascoltare su disco. Leo ha portato Hellpath che all’inizio era un po’ diversa con dei giri sui quali abbiamo lavorato molto fino a farla diventare quella che è ora. A volte inizio a comporre con la chitarra perché ho una melodia in testa, me la canto, la trascrivo e la propongo ai ragazzi; può anche non essere un brano completo e poi lo finiamo insieme, magari chiedo a Sara “mandami un giro di flauto” ed è nata Drink Some More!, quindi è un lavoro che facciamo tutti: a volte mi basta un input da parte dei ragazzi per arrivare a comporre un brano con una struttura completa e scorrevole, altre volte è farina del mio sacco, ma che comunque poi andiamo ad ultimare e arrangiare assieme, così da renderlo a tutti gli effetti un brano dei Vallorch. Abbiamo anche dei brani nuovi in lavorazione, alcuni completi e altri con delle idee…

Quindi possiamo dire che non dovremo aspettare altri dieci anni per il prossimo disco?

Marco: speriamo di no!

Leo: Dio ce ne scampi ahah!

La chiusura perfetta dell’intervista! Sara, Marco e Leo, vi ringrazio per avermi concesso tutto questo tempo!

Leo: grazie a te Fabrizio, ci siamo divertiti un sacco!

Sara: ciao e grazie!

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