Intervista: Skiltron

Una carriera con dischi sempre belli, il trasferimento dall’Argentina alla Finlandia e la fortuna di aver trovato un cantante dalle grandi qualità canore. Gli Skiltron sono un gruppo in continua crescita e la pubblicazione dell’ottimo Bruadarach è la giusta occasione per scambiare due parole con la band. Ho così contattato il frontman italiano Paolo Ribaldini, il quale si è dimostrato entusiasta di parlare del nuovo album e di se stesso. Un consiglio: quando gli Skiltron suoneranno in Italia fate di tutto per vederli dal vivo.

Ciao Paolo, da dove ci stai rispondendo, dalla Finlandia?

Ciao! In realtà no, ti rispondo da Lipsia dove stasera avremo un concerto con i Delain. Domani Polonia e da lì il resto dell’Europa centrale. Ma quando non sono in giro a suonare vivo effettivamente a Helsinki, in Finlandia. Vivo lì da circa 12 anni e mi ci sono inizialmente trasferito per intraprendere un dottorato di ricerca sulla musica heavy metal. Poi sono rimasto a studiare musica pop/jazz ed oggigiorno – oltre a far parte del cosiddetto “music business” in vari ruoli – sono anche un docente di canto sia privatamente che nell’università pubblica dove ho studiato canto. Non sapevo nulla del paese o della sua cultura, conoscevo alcuni sportivi come Litmanen, Räikkönen e Häkkinen, e la provenienza di band come Stratovarius, Nightwish e Sonata Arctica era per me irrilevante perché la loro musica non è direttamente legata alla Finlandia come per esempio i testi di Amorphis, Finntroll e Korpiklaani.

Il disco Bruadarach è uscito da poco, quali sono i tuoi sentimenti ora a lavoro finito e pubblicato?

Sono ovviamente molto felice che Bruadarach sia disponibile per essere ascoltato da fan nuovi e vecchi della band. La realizzazione del disco ha richiesto quattro anni, addirittura più tempo di quanto io abbia passato nel ruolo di cantante della band. Credo che ci siano alcuni punti di forza molto netti: numerose canzoni sono decisamente tra le migliori mai scritte da Emilio Souto (chitarrista e leader della band, ndMF), mi piacciono certe scelte di produzione soprattutto su batteria e cornamusa, e la copertina secondo me ha un soggetto fantastico e dei colori estremamente evocativi. Tra le tracce del disco le mie preferite sono Rob RoyWhere The Heart Is e This Battle Is My Own, che mi diverto molto a cantare anche dal vivo. Sono per carattere (e per deformazione di musicista originariamente classico) un perfezionista, ragione per la quale trovo sempre qualcosa che a posteriori cambierei o farei meglio, soprattutto nella mia performance o nella produzione vocale. Ma è un lato di me su cui sto lavorando, e sto davvero imparando pian piano a gioire anche di quelle ciambelle che non riescono col buco. Penso di aver interpretato alcune canzoni piuttosto bene, soprattutto contando il fatto che le abbiamo registrate in tempi estremamente ristretti. E alla fine di tutto un album ben riuscito ti lascia sempre spunti di imperfezione per migliorare al prossimo giro.

Vorrei conoscere la tua storia, quindi iniziamo proprio dall’inizio: quando e come ti sei avvicinato alla musica e al rock/metal in particolare?

Il mio percorso forse è un po’ particolare, perché ho scoperto la musica rock quasi a vent’anni – quindi tardi rispetto ai più – grazie a tre miei compagni di scuola. Giovanni, umanista di cultura eccezionale che oggi dirige l’agenzia di fact-checking Pagella Politica, cominciò a passarmi alcuni cd dei Rhapsody (all’epoca non ancora “of Fire”) e dei Muse. Matteo, che da adolescente era completamente assorbito dallo studio della chitarra, mi instradò al power metal con Helloween, Sonata Arctica e Stratovarius. Il terzo gaglioffo, Gabriele, ha una cultura musicale eccezionale ed era già all’epoca un tastierista esperto. Tra le altre cose si è divertito a scrivere un libro di storia sui tastieristi rock più importanti, Rock Keyboard (R)evolution, che si può trovare su Amazon. Grazie a Gabriele ho conosciuto alcune delle mie band preferite di sempre, tra le quali i Deep Purple ed i Rainbow. Ancor più interessante è che tutti e quattro, in momenti diversi e per più o meno anni, siamo stati studenti di musica al conservatorio di Mantova, la nostra città natale. La mia formazione musicale fino a quel momento si era concentrata principalmente sulla musica classica, che studiavo al conservatorio, e sui cantautori italiani ascoltati da mio papà. Unica possibile eccezione i Pink Floyd. I Rhapsody suonavano musica abbastanza vicina a quella sinfonica cui ero già abituato, e per un nerd come me l’ambientazione fantasy creata da Luca Turilli era estremamente affascinante. Non avrei mai detto che sarei poi finito a cantare i backing vocals su diversi dischi dei Rhapsody of Fire.

Quali sono stati i cantanti che da giovane ti hanno colpito maggiormente e quali, invece, quelli che oggi ammiri di più?

Ce ne sono molti ed in generi anche piuttosto distanti tra loro, un po’ anche come le fasi della mia vita. Preparati al pippone. Partendo dal metal sono sicuramente affezionato alla “vecchia scuola” dell’heavy rock: Rob Halford, Eric Adams, Ronnie James Dio su tutti. Con loro ho veramente imparato ad amare la musica heavy, sono anche stato abbastanza fortunato da averli sentiti tutti dal vivo. Mi piacevano anche il primo Jon Oliva dei Savatage, il sottovalutato Tony Martin nei Black Sabbath, Blackie Lawless dei WASP e il primo Toni Kakko dei Sonata Arctica. Farti un elenco esaustivo è oltre le mie capacità, ho tentato di assorbire da tantissimi cantanti diversi. Tutta gente, in ogni caso, che ti pettinava via dal vivo e che anche in studio cantava in modo molto organico, poche take ma buone. A questi davi qualunque cosa, anche la lista della spesa, e ti facevano venire la pelle d’oca quando la registravano. Cerca su YouTube la traccia vocale isolata di Rainbow In The Dark e sentirai che roba… A uno che canta così cosa vuoi dire? Che ogni tanto qualche nota è un po’ fuori posto? Oggi il sound tipicamente power metal un po’ mi annoia, ci sono troppi cantanti che suonano tutti uguali e clinici. Nella scena odierna del metal “cantato” i miei preferiti sono il mio amico Yannis Papadopoulos dei Beast in Black, Noora Louhimo e Lizzie Hale. Nel metal estremo stravedo in modo anche banale per Will Ramos dei Lorna Shore, che secondo me ha portato la voce estrema verso un livello di completezza superiore. Sono comunque legato maggiormente ad un rock un po’ più leggero, spesso americano. Il mio gruppo preferito di sempre sono i Journey, e Steve Perry – che fondamentalmente è un musicista rhythm ‘n’ blues – è il cantante che più mi ha ispirato negli ultimi dieci anni. Per qualche tempo ho veramente provato ad “essere lui”, poi ho capito che era una fase attraverso cui dovevo passare e da cui dovevo maturare verso una mia identità propria. Però tanti suoi manierismi mi si sono impressi nel DNA. Altri esempi di cantanti che mi hanno influenzato sono certamente Joey Tempest (Europe), Dave Bickler (Survivor), Meat Loaf, Sting (The Police), John Fogerty (CCR), Joe Lynn Turner (Rainbow e Deep Purple), Michael Bolton, Gary Moore, Lou Gramm (Foreigner). Ho poi un’ammirazione sconfinata per il compianto Brad Delp dei Boston, per me il rocker con uno dei belting più belli di sempre. Cerco di imparare anche da cantanti pop o RnB, come Bruno Mars, Adam Lambert, The Weeknd, Michael Jackson e Adele. C’è anche tutto un lato di me che ama il cantautorato. Penso di aver ascoltato nettamente più questo genere che non qualunque altro negli ultimi anni. Sarà l’età che avanza. Il mio eroe indiscusso è Francesco Guccini, cui mi sono appassionato grazie a mio papà, e con cui condivido le origini di bassa Padana: sono cresciuto con lo stesso odore di campagna, le risaie, i limiti e la bellezza della città preziosa ma piccola. Per lui Modena, per me Mantova. Il suo uso della nostra bellissima lingua italiana, ed anche del dialetto modenese, per me è tuttora insuperato, ma oltre a questo Guccini cantava davvero bene e con grande gusto soprattutto negli anni Settanta ed Ottanta. In campo internazionale adoro i classici indiscussi come Paul Simon e John Denver, cantanti non tecnicamente impressionanti ma artisti veri e molto genuini.

Vanti collaborazioni con nomi importanti della scena metal come Delain, Rhapsody Of Fire e Beast In Black: ce ne vuoi parlare?

Ben volentieri. Dei Rhapsody sono un fan, come ho detto, sin dalle mie prime esplorazioni metalliche. Il mio contatto con loro nasce dal mio amico Giacomo Voli, oggi loro frontman, che mi chiese di partecipare alla registrazione di Into The Legend ormai una decina di anni fa. Poi sono arrivati il ‘best of’ ri-registrato Legendary Years che, da fan, è stato per me un motivo di grande orgoglio, e l’album inedito che uscirà tra poco e dal quale sono già stati pubblicati un paio di singoli. I due dischi usciti nel 2019 e 2021 li ho purtroppo mancati, perché non sono riuscito ad incastrare gli altri impegni con le registrazioni.

Ai Delain sono arrivato tramite il mio amico Anton Kabanen dei Beast In Black. Quando è successo il patatrac fra Martijn Westerholt ed il resto della vecchia line-up, Anton mi ha raccomandato a Martijn ed è nata una bella collaborazione, che si è realizzata con me coinvolto come co-writer in alcuni brani del recente album Dark Waters e come guest-star su base permanente nei concerti dal vivo. Finora ci siamo trovati bene ed il mio contributo ha aperto una dimensione ulteriore sul sound della band, anche perché la mia voce e quella di Diana Leah si combinano in maniera piuttosto naturale.

I Beast In Black sono una delle collaborazioni che mi rendono comprensibilmente più orgoglioso. Parlai con Anton per intervistarlo nel lontano 2013, poi ci perdemmo di vista fino al 2015, quando lui era appena uscito dai Battle Beast e stava preparando il nuovo (quasi omonimo) progetto. Allora cominciammo a frequentarci e spendere tempo assieme, scoprendo di avere molte passioni e molti valori importanti in comune. Oggigiorno è uno degli amici cui do più fiducia, siamo entrambi molto impegnati quindi ci si vede meno spesso che anni fa, ma il rapporto sembra comunque rafforzarsi di anno in anno. Dopo il primo album Berserker, mi disse che aveva bisogno di una mano per scrivere i testi del disco successivo, e mi invitò a provare su qualche traccia musicale già composta. I primi risultati furono incoraggianti, così finii a scrivere diverso materiale finito poi in brani vari di From Hell With Love. Per il successivo Dark Connection avevo steso qualche idea, poi nelle versioni finali sono stati usati esclusivamente testi di Anton stesso, così mi sono anche lì ‘riciclato’ come corista. In futuro le porte sono sempre aperte, si vedrà un po’ come organizzarsi in base alla necessità di nuovi testi.

Arriviamo agli Skiltron: sei tu che hai cercato loro o viceversa?

Viceversa. Emilio mi ha trovato, in pieno Covid, grazie ad una conoscenza comune. Se non sbaglio era luglio 2021, ci trovammo in un pub del centro ed Emilio mi descrisse cosa aveva in mente per le registrazioni del disco ed il progresso della band.

Bruadarach è il “classico” album degli Skiltron: roccioso, epico e con un sacco di cornamuse. La differenza questa volta la fa la tua voce, strepitosa. Come vedi l’album all’interno della discografia della band? Quali aggettivi utilizzeresti dovendolo descrivere?

Ti ringrazio molto per il complimento! Io credo in tutta onestà che l’album sia nettamente il migliore realizzato dagli Skiltron finora, e non perché ci canto io. Capisco che le cornamuse ed il suono generalmente ‘classic heavy’ lo avvicinino molto agli album precedenti, ma io sono più portato a vedere le differenze dai predecessori. È un disco più di “canzoni” nel senso letterale, la voce ha uno spazio che finora non aveva mai avuto in questa band. Prima spiccavano tanti brani bellissimi ma, per i miei gusti, a volte dispersivi o persino prolissi. Qualche volta c’erano ottime idee, ma troppe. Qui si va dritti al punto, poche balle e pedalare… C’è chiarezza di intenti. Non che io abbia nulla contro le strutture più “discorsive”, ma non funzionano sempre: talvolta un brano compatto e semplice conserva maggiormente l’efficacia espressiva.

Aggettivi te ne do tre: orecchiabile, eroico, nobile. I brani che suoneremo dal vivo hanno uno tra i due intenti: spazzarti via o farti battere il cuore.

Ci parli dei testi? Sei tu che li hai scritti?

Sui testi c’è la mano quasi esclusiva di Emilio. Il frontman precedente, l’eccellente Martin McManus, ha contribuito a scriverne due. È più che possibile che nei lavori futuri io sia coinvolto di più nella scrittura dei testi e forse anche della musica, ma gli Skiltron sono principalmente il canale espressivo di Emilio. Giusto quindi che sia lui ad avere sempre la possibilità di dettare almeno delle linee guida e l’ultima parola sull’output creativo.

Gli argomenti principali sono due: le storie riguardanti la Scozia in qualunque veste, e le domande esistenziali che solitamente ci pongono di fronte a sfide da cui usciamo più consapevoli e maturi. C’è una dimensione decisamente incoraggiante in Bruadarach, è un album che nei testi a me personalmente ricorda molto i Manowar ed il loro spirito molto ‘uplifting’.

Qual è il testo che più ti piace o che senti maggiormente tuo?

A me piace molto Rob Roy, ha dei giochi di parole sagaci e ti immerge nella vita (vera, non cinematografica) di Robert McGregor già dalla prima strofa! A pari merito metto anche Where The Heart Is, c’è un’autenticità emotiva rara che traspare dal testo. Sia io che Emilio siamo degli espatriati, e quando devolvi una grande fetta della tua vita ad un luogo in particolare c’è qualcosa che cambia dentro di te. Un ‘quid pro quo’. Ricevi tanto, ma sei costretto anche a cedere una parte della tua identità. Ti esprimi in una lingua per te non natìa, devi imparare a capire le persone ed i costumi, o anche semplicemente ad orientarti in luoghi nuovi. Il cibo non ha lo stesso sapore, persino l’espresso fatto con la stessa cuccuma e la stessa marca di caffè ha un sapore differente in posti differenti. Poi, quando hai fatto tue queste cose, ti guardi indietro e ti viene il dubbio di aver cancellato quel che eri prima. Non è vero, ovviamente… Ma nei viaggi si cambia molto, se sono buoni viaggi. Un po’ come Lemuele Gulliver che, tornato in Inghilterra, è un uomo completamente diverso da quando è partito. Emilio ha un suo motivo per cui ha scritto questo testo, ma il significato che gli do io è ovviamente collegato alla mia doppia cittadinanza.

Fai parte anche di Leverage e Seraphiel, ma ancora non hai inciso con loro. Ci parli di questi due gruppi e di queste esperienze?

I Leverage sono la creatura del chitarrista Tuomas Heikkinen, e tra le mie band preferite dal mio trasferimento a Helsinki. A fine anni Duemila erano sulla rampa di lancio con tre album molto convincenti ed un cantante eccezionale come Pekka Heino, uno che esemplifica perfettamente il mio discorso precedente sui cantanti da ‘lista della spesa‘. Dopo qualche anno in naftalina, attorno al 2017 la band si era riformata ingaggiando come cantante Kimmo Blom, in Finlandia conosciuto soprattutto per il tributo a Freddie Mercury. Kimmo purtroppo era già malato e questo ha impedito di concentrarsi sull’attività dal vivo, concedendo solo di registrare due ulteriori album ed un EP. Quando è venuto a mancare, nel 2022, per uno scherzo del destino ero in Italia a suonare con gli Skiltron. Eravamo in buoni rapporti e, sapendo che gli restava poco tempo, volevo andarlo a salutare una volta tornato a Helsinki. Ma lui evidentemente era chiamato con urgenza altrove. Poco tempo dopo Tuomas, a nome di tutto il gruppo, mi ha chiesto di diventare il nuovo cantante, ed io ho accettato senza fargli neanche finire la frase. La band non è conosciutissima, ma per me era un sogno diventato realtà. Con un po’ di fortuna e tanto lavoro, faremo grandi cose.

I Seraphiel vanno indietro di oltre quindici anni, è una band formata da alcuni miei amici di Helsinki alle superiori. Ho avuto la fortuna di suonare con tantissima gente davvero spaziale durante la mia carriera, musicisti anni luce avanti a me, ma ti assicuro che il talento ed il potenziale di questa band in particolare sono ad un livello pazzesco. Da diversi anni lavoriamo al primo album completo della band, ed ogni singola canzone è a modo proprio una vera bomba atomica. Ho anche avuto un peso molto rilevante nel processo creativo. Sinceramente non ho idea di quando riusciremo a pubblicarle: per un paio di componenti con un ruolo chiave nella produzione questo momento è impegnativo sul lavoro e nella vita privata, il meccanismo si è leggermente inceppato e stiamo cercando di capire come muoverci. Può essere che ci sia un’accelerata decisa questa primavera, come può darsi che sia necessario attendere ancora anni. Ma la maggior parte del lavoro è fatto e quasi ogni volta che facciamo sentire i brani a qualcuno, le mandibole toccano il pavimento. Spero davvero che non ci voglia più molto.

Ho letto che sei anche violinista e diplomato al conservatorio di Mantova: suoni in qualche gruppo oppure ti stai concentrando unicamente sulla voce?

Al momento mi concentro sulla voce. Cerco anche di imparare a suonare chitarra e pianoforte, sono progetti a lunghissimo termine… Però sì, ho una lunga storia come violinista classico “in una vita precedente”. Non credo di essere mai stato un fenomeno, avevo tante difficoltà con lo strumento e avrei dovuto studiare meglio nei primi anni, fondamentali per apprendere e solidificare la tecnica. Ma avevo anche delle belle qualità non comuni: la cavata abbastanza “adulta”, la musicalità… Se dopo il diploma mi fossi concentrato sul violino e fossi andato a perfezionarmi lontano da Mantova, magari oggi farei quello di mestiere. Invece ho fatto 5 anni di filosofia all’università e poi sono emigrato.

Parlando del violino, ti piace qualche musicista metal/rock in particolare? Oppure, per dire, lo preferisci nella musica tradizionale (irish trad, esempio) o classica?

Non seguo più di tanto violinisti rock o metal, anche se non ho nulla contro l’idea. Anzi, coi Leverage abbiamo incluso su base semi-permanente Lotta-Maria Heiskanen nella band. Lotta è una violinista jazz e di musica etnica molto brava, è esperta di repertorio mediorientale e si muove molto bene sui suoni tipici di quella cultura: micro-tonalità, scale con intervalli eccedenti, improvvisazione, ecc. Pensiamo che – distorcendo il segnale del violino elettrico – possa essere un’aggiunta d’impatto al sound della band, e che apra possibilità più ampie rispetto alle solite due chitarre che si sentono da 50 anni. Cercheremo di darle sempre più spazio fino a farne un componente a pieno titolo della nuova line-up.

Nella musica tradizionale europea ovviamente mi piace molto sentire il violino, anche perché il modo di suonarlo è molto diverso da quello classico. Trovo che anche in molti brani più pop o cantautorali tempo fa si usassero gli strumenti ad arco in modo efficace, oggi meno o meglio in modo più stereotipato.

Immagino che sarai presto impegnato con gli Skiltron nella promozione del nuovo Bruadarach, è così?

Certamente. Avremo un buon numero di concerti quest’anno, principalmente in festival. In realtà suoniamo i brani del nuovo album già da due anni abbondanti. Come ho detto fino all’uscita di Bruadarach, non siamo una di quelle band che aspettano la release per suonare le canzoni dal vivo. Se sono canzoni valide che ci piace proporre al pubblico, semplicemente lo facciamo. Una volta era molto comune, se ci pensi anche band come Black Sabbath, Rainbow, Van Halen e Quiet Riot hanno passato anni ed anni suonando brani inediti dal vivo prima di registrarli in studio. Oggi senza dubbio c’è una logica diversa, capisco che non vendere più dischi fisici e far fronte ad una concorrenza illimitata facciano da deterrenti dal proporre le canzoni ai concerti prima di avere il supporto della release anche solo digitale.

Quali saranno, invece, i tuoi prossimi impegni tra progetti, collaborazioni e incisioni?

Mi piacerebbe davvero vedere l’album dei Seraphiel prendere una forma definitiva con la pubblicazione dei primi singoli. Ciò probabilmente significa allocare tempo ed energie nel perfezionare la produzione vocale, ma l’impegno maggiore non lo devo mettere io. La cosa è fuori dal mio personale controllo.

Per i Leverage è poi il momento di pubblicare nuova musica. I due album con Kimmo Blom, DeterminUs e Above The Beyond, sono zeppi di brani fantastici, ma la pandemia di Covid e la lunga malattia di Kimmo hanno spento i riflettori su questi due lavori che meritavano più attenzione. Penso fosse interessante la scelta del sound: in un’epoca di produzione quantitativamente abbondante, in cui si cerca di riempire con creatività ogni spazio sonoro disponibile, quei due album erano più snelli e “old school”, navigavano sulla rotta più libera segnata negli anni ’70 ed ’80. Non vorrei esser frainteso: non ho nulla contro le moderne produzioni massicce, anzi… Ci sono degli album recenti che mi piacciono da morire. Ma era una bella idea quella di far suonare tutto più organico, più “band”. Con i brani nuovi su cui stiamo lavorando abbiamo deciso di allinearci ad un sound più moderno che faccia comunque risaltare i punti di forza di questa band: le melodie eccezionali scritte da Tuomas, che ha anche una padronanza non comune della scrittura dei testi in Inglese, l’inventiva sui riff e l’interpretazione del cantato.

Coi Delain sta cominciando il ciclo di produzione per un nuovo album: scrittura dei brani, arrangiamento, ripartizione delle parti vocali, eccetera. Probabilmente ci saranno notizie in merito già quest’anno. Gli Skiltron invece si concentreranno per un po’ sull’attività dal vivo, anche se so che Emilio ha già imbastito qualche principio di idea per canzoni nuove.

Siamo verso la fine dell’intervista, quindi domanda extra musicale. Come ti trovi in Finlandia e Helsinki in particolare? Senti il “mal d’Italia”? Potendo “portare” una cosa italiana in Finlandia e viceversa, cosa sceglieresti?

In generale mi trovo bene in Finlandia. Se così non fosse sarei probabilmente già andato via anni fa. Ho imparato molto bene la lingua e mi sono integrato efficacemente nella società, tanto che al giorno d’oggi mi sento altrettanto italiano quanto finlandese ed ho il doppio passaporto. Anche la Finlandia è comunque un luogo pieno di problemi, certamente diversi da quelli della società italiana ma non meno pressanti o preoccupanti. Sono semplicemente modi di vivere diversi che vanno bene per persone diverse. E a volte anche l’Italia mi manca in modo “fisiologico”. Della Finlandia terrei lo spirito nazionale, nonostante le divisioni geografiche e politiche ci si sente tutti finlandesi e potenzialmente uniti verso uno scopo comune. Dall’Italia cerco di portare sempre in valigia lo spirito di adattamento e la creatività. Siamo senza dubbio il popolo più pieno di risorse e resiliente del mondo, abbiamo un grande numero di qualità che all’estero ci invidiano, seppure lo ammettano a fatica. Spesso non ce ne accorgiamo finché non lasciamo il nostro Paese e cominciamo a guardare da fuori con spirito critico. Se lo facessimo più spesso noteremmo tante cose che potremmo cambiare in meglio, ma anche tante che ci hanno reso in passato un fulcro della civiltà mondiale e che non dovremmo cestinare senza pensarci un milione di volte. Guardate che l’Italia è un paese eccezionale, dobbiamo credere in noi stessi come nazione. E fare più fatti e meno pugnette.

Ti ringrazio per questa bella chiacchierata e spero di poterti vedere presto sul palchi italiani con gli Skiltron. Puoi chiudere l’intervista come meglio credi 🙂

Grazie mille a te per lo spazio e la libertà accordatami! Con gli Skiltron verremo probabilmente in Italia per almeno un festival estivo, a meno di complicazioni dell’ultim’ora. Mi sono molto divertito e spero di aver lasciato qualche spunto interessante. Saluti a tutti i lettori e spero di vedervi numerosi a qualche concerto delle mie band! Il mio linktree è https://linktr.ee/paoloribaldini quindi benvenuti a fare un giro sui miei social e pagine web principali. 😊

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